Medico… senza frontiere
Un divertentissimo viaggio nel tempo, indietro fino agli anni ’70, un’epoca difficile per molti aspetti, ma anche piena di promesse per il nostro Paese. Allora tutto sembrava veramente possibile, anche se il destino è sempre pronto a presentare il conto!
Si dice il peccato, ma non il peccatore.
Così, universalmente riconosciuto, recita il detto. In questa storia invece, proprio per la trasparenza e la cordialità dei rapporti che intercorrono e devono intercorrere tra chi scrive ed i suoi lettori, conoscerete l’uno e l’altro.
Solo i nomi degli altri personaggi coinvolti sono ovviamente immaginari proprio perché, trattandosi di una storia realmente accaduta, mi sembra giusto conservarne e preservarne la privacy.
È una storia vecchia, anzi vecchissima, di quasi mezzo secolo fa, ed io non avevo ancora compiuto 17 anni. Ero, allora, quello che oggi potremmo definire un birichino, o anche, per i più severi, uno scavezzacollo. Ma è il caso di precisare che non avevo ancora alcun impegno sentimentale. Ero uno studente quasi modello, nonostante tutti i giorni, al termine del normale orario delle lezioni, lavorassi in cantiere: mi occupavo della produzione di travetti in latero-cemento, indispensabili per la costruzione dei solai nella nostra piccola impresa di costruzioni.
Il lavoro di cantiere aveva certamente contribuito a far si che sviluppassi il fisico (badate bene, ho detto solo il fisico) e conseguentemente apparivo un giovane a cui si potevano dare tranquillamente 21 o 22 anni. Questa mia particolare caratteristica mi consentiva di avere frequentazioni con ragazzi e ragazze più grandi di me, con i quali uscivo. Trascorrevo con loro, sempre dopo il lavoro o la domenica pomeriggio, qualche ora di spensieratezza e svago. Con uno di questi, un ragazzo di 22 anni simpatico ma assai timido, che per quanto innanzi detto chiameremo Pasquale, avevo un particolare feeling. Pasquale, infatti, aveva tutto ciò che a me mancava, ossia la macchina (una meravigliosa Mercedes 220 color verde bottiglia) ed una qualche disponibilità economica. Sopperivo a tali mie deficienze con una certa riconosciuta capacità di “rimorchiare” le ragazze che, per la circostanza, dovevano necessariamente essere almeno due, magari amiche o legate da un qualche legame, anche di parentela. Una cosa su cui non potevo transigere era, però, che dovevano essere, se non belle, almeno carine e intelligenti. Per la verità, vuoi perché ero un bel ragazzo, vuoi perché apparivo spigliato e sicuro di me, questo mio compito mi risultava oltre che facile e divertente, anche particolarmente calzante in ogni situazione, e non perdevo occasione per raccontare alle “povere” ragazze così incantate, storie e fantasticherie su cosa facessimo e di cosa ci occupassimo Pasquale ed io.
Per la verità, a quell’epoca, non era troppo facile incontrare due giovani che bighellonavano in Mercedes e che (grazie a Pasquale) potevano permettersi di fermarsi in un qualche bel posto, per offrire alle nuove conquiste un bel gelato o qualcosa d’altro.
Per tutto questo, quindi, la mia attività di “rimorchiatore” vantava successi anche insperati, sull’onda della sicurezza dei mezzi a disposizione e dei numerosi “agganci” messi a segno.
Fu così che, quel pomeriggio d’inverno, in prossimità delle festività natalizie, dopo avere attirato l’attenzione di due belle ragazze, bastarono pochi minuti per simpatizzare ed in un certo senso familiarizzare. Quel giorno mi sentivo un fiume in piena e ne sparavo di tutti i colori, ma la più grossa di tutte fu quella che io ero un giovane medico specializzato in pneumologia e Pasquale un valido infermiere.
Devo dire che, fino a qualche giorno prima di quell’incontro, non conoscevo neanche il significato della parola pneumologo, che scoprii solamente nell’accompagnare mio padre, grande asmatico, da uno specialista il cui titolo brillava in un’ampia targa di ottone fuori dal suo studio. Mi rimase così impresso che, venutomi in mente in quella circostanza, lo tirai subito fuori per fare ancora più bella mostra con le due avvenenti ragazze che, amiche da una vita, scoprimmo più tardi avevano 23 anni. Le frequentammo così per alcuni giorni e, come potete immaginare, sia io che Pasquale trovammo subito una certa disponibilità da parte loro, Lina con me e Ornella con il mio amico che, ad onor del vero, era particolarmente soddisfatto di questa nuova conquista. Fu così che ci trovammo invitati per il giorno di S. Stefano a casa di Lina, per la sua festa di compleanno.
Erano quelli tempi in cui i fortunati proprietari di case grandi e belle organizzavano, in particolari occasioni, feste per ballare e stare in compagnia. Gli amici venivano puntualmente invitati così come lo fummo Pasquale ed io.
Arrivammo alquanto in ritardo, naturalmente voluto da me, per accrescere ancor di più quel già alto interesse nei nostri confronti. Fu così che arrivammo intorno alle ore 17:00, naturalmente ultimi e subito ci vennero incontro Lina ed Ornella accogliendoci con un liberatorio “Finalmente siete arrivati!”.
Subito Lina mi presentò alla mamma come un suo amico medico di grandi promesse ed io, un po’ per paura un po’ per vergogna cercavo di frenare il suo entusiasmo e la sua soddisfazione. Pasquale intanto, grazie ad Ornella, veniva anch’esso presentato come un operatore sanitario. Fu poi la volta del padre di Lina, una persona già abbastanza anziana che seppi essere poi un ufficiale superiore dei Carabinieri in pensione.
Sentivo nell’aria qualcosa di strano, e a nulla valsero le cortesie e le attenzioni nei nostri confronti da parte di tutti, anche degli altri nuovi amici invitati che ci erano stati presentati. Manifestai a Pasquale tutto il mio disagio, forse mi ero accorto di aver alzato un po’ troppo l’asticella della mia goliardata ma, come mi disse lui, ora eravamo in ballo… e dovevamo ballare.
E ballammo. Molto e sul serio, con la musica ad alto volume, per circa un’ora e mezza. Il fumo delle sigarette che aveva inondato gli ambienti più il caldo dei termosifoni dell’impianto condominiale al massimo, avevano reso l’aria secca e quasi irrespirabile. Ma l’allegria, l’euforia e forse il gran bere di ogni tipo a disposizione, facevano in modo che non ci si badasse. Forse solo io e Pasquale – rigorosamente astemi – risentivamo di questo “inquinamento ambientale” di cui gli altri sembravano non accorgersi minimamente.
Ad un certo punto, nel bel mezzo del grande salone, piombò di corsa la madre di Lina gridando “Lina chiama un’ambulanza, un medico, tuo padre sta male”. Mi si gelò il sangue… subito Lina fece per correre verso la camera del padre ma, a metà strada si fermò, corse indietro, mi prese un braccio e mi disse “Vieni, fa qualcosa, papà sta male”. Io tirai per un braccio anche Pasquale che, fermatosi davanti la porta d’ingresso voleva andare via, o meglio, scappare. Lo strattonai e riluttante mi seguì. Entrammo in camera e trovammo il vecchio ufficiale disteso sul letto, sudato e quasi semi-incosciente. La temperatura era quasi quella di una sauna finlandese, feci aprire la finestra e allontanare tutti i curiosi. Pasquale vicino a me eseguiva i miei ordini e allontanava le persone. Mi feci coraggio. Chiesi dell’acqua fresca per farlo bere e bagnargli la fronte ed il petto. Vidi che il “paziente” era presente e rispondeva. Così, con l’aiuto di Pasquale, al quale avevo intanto chiesto di tenergli le gambe alzate, lo sollevammo un po’.
Incominciai così a “visitarlo”, non potevo fare altrimenti anche perché avevo capito che il troppo caldo, con l’aggiunta dell’abbigliamento pesante, il fumo e l’aria viziata erano state le cause di quel malessere, fortunatamente passeggero. Con Pasquale che mi faceva da infermiere, gli auscultai con l’ausilio di un fazzoletto prima il cuore e poi i polmoni. Naturalmente non ne sapevo e non ne capivo nulla ma questo mio modo di fare generò sicurezza e fiducia oltre che nel “paziente” anche nei presenti. Per terminare, chiesi alla madre di Lina se il marito prendesse particolari farmaci. A questa mia domanda vidi Pasquale strabuzzare gli occhi sbalordito, pensava certamente che stessi esagerando. Dopo qualche istante si presentò la signora con una di quelle ceste per regali natalizi, piena di medicine. Erano quelli gli anni in cui, il medico di famiglia, incentivato anche dalle case farmaceutiche, ne prescriveva a dismisura. Tanto erano gratuiti! C’era la Cassa Mutua che pagava ed era così che, in ogni famiglia, c’era una piccola farmacia a disposizione e pronta all’uso.
Rovistai incredulo tra i troppi farmaci presenti nella cesta e ne riconobbi uno: “Aminomal”, delle compresse di colore rosso per l’affanno che anche mio padre quotidianamente prendeva! “Ecco” dissi, “Prenda una di queste, l’aiuteranno a respirare meglio”. La signora subito intervenne dicendo che l’aveva già presa al mattino e che il medico ne aveva prescritta una al giorno. Ho insistito affinché la prendesse, anche perché mio padre ne prendeva due o tre al giorno e poteva prenderne ancora al bisogno. Sta di fatto che il “paziente” intanto, si era brillantemente ripreso, aveva chiesto ancora dell’acqua ed espresso il desiderio di mangiare.
Finita la “visita medica” e accertatomi con domande ai familiari e sui farmaci, che l’anziano papà di Lina non avesse avuto problemi cardiaci in precedenza, consigliai di lasciarlo riposare perché ritenevo che non ci fosse bisogno di altro. Semmai, l’indomani avrebbero dovuto informare il medico curante e, se del caso, rifarlo visitare.
Intanto Pasquale scalpitava per andare via e fu così che, poco dopo, sostenni che entrambi avevamo un turno di notte e che era giunta l’ora di accomiatarci. Nell’andar via, ci accompagnarono alla porta il “paziente”, più arzillo di prima, il fratello “Carlos Monzon” che mi ringraziò e mi strinse la mano quasi stritolandomela. Lina e Ornella ci fecero mille effusioni mentre la madre, nel ringraziarci mi disse: “Sa, devo confessarle che, con il ruolo di mio marito, pur conoscendo molti medici e molti specialisti, nessuno lo ha visitato e rincuorato come lei. Grazie ancora”.
Salutammo tutti, la porta finalmente si aprì, e Pasquale ed io scendemmo le scale a piedi, fin dal quinto piano, tanto era la voglia di andare via, preoccupati di una possibile ricaduta del “paziente”. Non avevamo tempo da perdere nell’aspettare l’ascensore.
In macchina, sulla strada del ritorno a casa il cui viaggio durava circa un’ora, pur riflettendo sul pericolo corso da tutti e non solo dal “paziente”, ridevamo come matti tanto che, rischiammo addirittura di uscire di strada.
Naturalmente, nei giorni successivi, allentammo via via tutti i contatti con Lina e Ornella, fino a non farci più sentire.
Da quel giorno però, capii veramente quanto dovesse essere breve lo scherzo o la goliardata così come cita il detto: lo scherzo è bello quando dura poco. Ed io, in quella circostanza, pur simpatica e fantasiosa, ero andato certamente un po’ oltre.
Per il resto ringrazio il buon Dio di non aver, fino ad oggi, avuto bisogno di particolari consulti medici… speriamo che duri, perché c’è un altro detto che mi torna alla mente: fidarsi è bene ma non fidarsi…