Cuore di Teo

Una storiella allegra e tipicamente veneziana, che ci fa planare immediatamente sul palco di una commedia del Goldoni, con l’acqua alta – la laguna che si alza e per qualche ora riconquista la città nata per sfidarla – vera protagonista.

Era il mese di novembre dell’anno 1992 e venivo a Venezia almeno ogni quindici giorni per seguire un progetto edilizio di conversione in appartamenti di un vecchio hotel del Lido, chiuso ormai da molti anni.

Gli uffici comunali dell’edilizia privata erano allora in Calle Contarina; per arrivarci dovetti necessariamente attraversare l’incomparabile piazza San Marco. Vedevo l’acqua dapprima affiorare e poi copiosamente uscire da quelle che erano le caditoie di raccolta dell’acqua piovana.

Non mi spiegavo il motivo – ero molto giovane ed inesperto – e così mi venne da pensare che ci fosse qualche problema al sistema di scarico delle acque piovane. Feci però in tempo ad andare negli uffici comunali dell’edilizia privata, che erano per altro posti al primo piano. Ne uscii dopo un po’ e l’acqua, nel frattempo, aveva incominciato a invadere anche calle Frezzaria. A malapena e con un po’ di fortuna riuscii ad arrivare al ponte Tron in bacino Orseolo dove, insieme ad altre persone, mi soffermai per capire cosa fare essendo sprovvisto di stivali.

Stavo assistendo a quel particolare ma caratteristico fenomeno dell’acqua alta che, dato che non lo conoscevo, suscitò in me sorpresa e grande stupore. Mentre pensavo al da farsi all’asciutto sul ponte, notai una donna abbastanza giovane, all’apparenza assai preoccupata e agitata. La stessa si rivolse a me con un possibile accento straniero: cortesissima e quasi in lacrime mi disse che aveva lasciato le sue due figlie in prossimità della piazza San Marco e non poteva raggiungerle perché sprovvista di stivali e affetta da una malattia dell’epidermide che la obbligava a non poter toccare l’acqua salata.

Ci pensai qualche istante e dopo aver constatato in cuor mio che la signora era abbastanza magra e che potesse essere un peso sostenibile da portare, le proposi di salire in spalla perché l’avrei accompagnata io.

Neanche io avevo gli stivali; mi tolsi allora le scarpe, i calzini, arrotolai i calzoni fino al ginocchio e misi tutto in borsa che consegnai alla signora prima di farla salire in spalla. Attraversai così, con i piedi in acqua a la signora sulle spalle, tutto bacino Orseolo fino ad arrivare in bocca di piazza dove, grazie al rialzo di due gradini, il portico rimaneva all’asciutto. La signora scese, mi consegnò la borsa mentre io cercavo di vedere dove potessero essere le sue due bambine. Mi accorsi invece che veniva verso di noi un’altra signora la quale si mise a parlare in dialetto stretto veneziano con la “trasportata” e questa, sempre in veneziano, le rispose qualcosa. Rimasi pressoché scioccato e attonito. Le signore, fra mille risate mi spiegarono che, il giorno prima, avevano appunto scommesso tra di loro che la “trasportata”, in occasione dell’acqua alta, avrebbe trovato un “Mona” che l’avrebbe portata sino in bocca di piazza senza farle bagnare le scarpe.

Quel giorno scoprii così il significato di quella parola e, cosa ancor più importante chi era il “Mona”.

Foto: Peggychoucair da Pixabay