Ricordo di Carlo Mazzantini di Teodoro Russo

Carlo Mazzantini. Ricordi.

Dario Fo, Raimondo Vianello, Ugo Tognazzi, Hugo Pratt, Walter Chiari sono solo alcuni degli italiani che militarono nella Repubblica di Salò. Mazzantini fu uno di quelli. Chissà, forse tra 500 anni – quando non interesserà a nessuno – riusciremo a parlarne con più serenità. Forse.

Ero un bambino! Frequentavo le elementari in una piccola frazione di Tivoli, già Ponte Lucano. Il nome gli era dato da uno storico ponte sull’Aniene in prossimità di un’antica tomba romana: il Sepolcro dei Plauzi. La “scuola” era in realtà, un appartamento dato in affitto dal proprietario al distretto scolastico, posto al primo piano alto, sopra un’attività di alimentari e vini. Una ripida e lunga scala esterna ne consentiva l’accesso.

Il negozio di alimentari era gestito dalle due figlie del simpatico ed allora già anziano proprietario, il signor Domenico, mentre la moglie, la signora Rosa, una cordialissima donnona alta e robusta, era la cuoca che gestiva, in uno spazio con cucina con accesso dal retro del negozio, quello che allora chiamavamo – con un termine oggi desueto – refettorio.

Era cioè quella sala che serve proprio a ristorare, cioè a nutrire le persone che vi abitano e lavorano; e noi scolari, a quei tempi, in quella “scuola appartamento” era come se ci vivessimo.

Funzionava per la verità solo da gennaio a giugno, fino alla fine della scuola e solo per alcune classi, credo dalla seconda elementare in su. Dopo aver “desinato”, inteso nel proprio e vero senso della parola di rompere il digiuno, rientravamo nella nostra stanza o, meglio, in classe, per quello che era un dopo scuola di semplice valenza didattica. Allora, e oggi ancor di più considerato il tempo trascorso, quella scuola mi sembrava meravigliosa, con la mia bravissima maestra che non finirò mai di ringraziare per ciò che in quegli anni difficili mi ha insegnato e trasferito; con la nostra instancabile e unica bidella, Gigliola, di origini certamente toscane.

Così, in quel luogo e in quell’ edificio, iniziavo il mio percorso di scolaro, un po’ discolo se vogliamo, vivace diremmo oggi, ma certamente attento e partecipativo.

Per andare e tornare da scuola ogni giorno, dovevo percorrere circa cinque chilometri, a piedi e su una strada provinciale, stretta e priva di marciapiede, transitata per lo più da mezzi pesanti data la presenza di numerose micro-industrie del travertino e, a quel tempo, della più grande cava di pozzolana per cemento di tutta la regione.

Tale distanza, certamente importante e pericolosa per un bimbo di sei/sette anni, riuscivo però il più delle volte a percorrerla in autostop!

Chi, infatti, non si ferma incrociando un autostoppista bambino?

Un giorno, senza nemmeno allungare il braccio con il pollice su, una Renault 4 grigio topo si fermò per darmi un passaggio. Alla guida un uomo di mezza età robusto e cortese che mi fece sedere davanti, accanto a lui. Dietro erano già sedute tre bambine di età assai vicina tra loro e una quarta un po’ più piccola. Tutte andavano anch’esse a scuola, la più grande credo già alle medie, due alle elementari più o meno mie coetanee e la più piccola forse all’asilo.

Fu così che, per la prima volta, incontrai e conobbi Carlo Mazzantini,

che vidi poi numerose volte, sempre nella sua veste di “driver” con questa simpatica auto con doppia targa. Quella italiana nell’apposito riquadro e, a fianco, una targa inglese. Vedere una targa inglese o straniera, all’epoca era un po’ come vedere una mosca bianca e, per me che ero poco più che un bambino, suscitava grande curiosità.

Non sapevo allora chi fosse e cosa facesse quell’uomo, alla guida di questa macchina così atipica che aveva questa lunga leva in alto sul cruscotto e che guidando muoveva avanti, indietro e girava con maestria. In quel periodo, spessissimo e soprattutto al mattino, si fermava ormai spontaneamente per farmi salire in auto, con mio grande sollievo perché non avrei dovuto fare a piedi la strada. Altre volte, a guidare l’auto era una signora molto magra, con accento tipicamente anglofono che avevo capito essere la moglie, ossia Anne Donnelly.

Dopo l’età scolare e per diverso tempo, non vidi più quell’uomo dalla folta capigliatura e dagli occhi chiari che, per altro, abitava con la sua famiglia poco distante da casa mia, in campagna e su una ridente collina baciata dal sole. Solo più tardi capii chi fossero: uno scrittore affermato lui ed una brava pittrice lei.

Ricordo un giorno degli anni Novanta – io ormai adulto e amministratore della città – che incontrandolo mi invitò ad andarlo a trovare a casa sua. Ci andai molto volentieri un pomeriggio di qualche giorno dopo, mosso dalla curiosità di conoscere meglio quell’uomo che a me appariva ora austero ma cortese, colto, pronto al dialogo ma nello stesso tempo riservato. Rimasi con lui almeno un paio d’ore; mi offrì un caffè che bevemmo in compagnia della moglie e mi invitò credo, nel suo studio.

Conversammo tutto il tempo o, meglio, per la maggior parte del tempo mi parlò di lui e dei suoi trascorsi, stimolato anche dalle mie domande, a tratti incalzanti perché figlie della mia inesauribile curiosità. Vedevo e rivivevo in quell’uomo, poco più giovane di mio padre da poco scomparso e che come lui aveva fatto la guerra, ma solo dopo l’8 settembre, un periodo storico diverso del nostro Paese, che conoscevo per averlo letto; ma non avevo mai incontrato nessuno, prima di allora, che me ne parlasse.

Era stato infatti un “repubblichino” convinto, tanto che fuggì addirittura da casa per unirsi ad un battaglione di camicie nere,

nella convinzione di andare a combattere contro gli anglo-americani che risalivano dal Sud. Si trovò invece a rastrellare partigiani e renitenti alla leva.

Il suo modo di discorrere faceva trasparire tutte le sue esperienze di professore, che seppi poi aveva fatto all’estero, forse in Marocco e certamente in un’università irlandese.

Lo scrittore, il poeta, lo storico Carlo Mazzantini, mi fece allora comprendere che, seppur la storia – che è il più giusto dei tribunali – lo aveva convinto della sua appartenenza allora alla parte sbagliata, non nutriva per questo nessuna vergogna o pentimento. Era nato, aveva frequentato la scuola ed era vissuto in un contesto dove il fascismo gli aveva insegnato, indottrinandolo, che quella era la parte migliore, se non l’unica, che potesse fare il bene del Paese.

Ricordo perfettamente l’elegante gestualità delle sue mani che adoperava come rafforzativo dei suoi pensieri, dei suoi ragionamenti. Mi confidò che lo scrivere, il narrare di quel periodo storico nei suoi libri, spesso lo pose davanti alla necessità interiore di leggere e studiare, per conoscere appieno fatti e circostanze, i perché e cosa, che insieme alla sua storia di vita vissuta potessero aiutarlo in una descrizione equidistante e incontaminata, per quanto possibile, del suo pensiero. La maturità e la saggezza di un uomo colto e che aveva conosciuto il mondo lo inducevano a seminare concordia e ragionamento. Mi esplicitò con grande maestria come fosse possibile addirittura giustificare, pur senza condividerle, posizioni diverse e ragionamenti diametralmente opposti alle sue convinzioni. A riprova di ciò, tempo dopo seppi che partecipò o addirittura si iscrisse al Partito Radicale con Marco Pannella.

Furono, quelle due ore insieme a lui, di grande insegnamento. Mi ero preparato a incontrare un uomo, definito dai più frettolosi di destra. Incontrai invece una persona aperta al confronto e al dialogo, senza pregiudizi e retropensieri. Concreta, forse anche risoluta, per quelle questioni certe e inconfutabili e di cui era inutile parlare.

Tutte cose che riuscì a trasmettermi con lucidità e passione e che per questo, ricordo perfettamente.

Chissà che, in memoria di questo uomo, nella cittadina in cui per molti anni visse e che fin dal 2006 ne custodisce le spoglie, in occasione del centenario della sua nascita qualche zucca non vuota (visto Halloween appena passato), ma almeno un po’ pensante, si faccia portavoce e interprete per titolargli una piazza o una strada.

Sarebbe il minimo riconoscimento a un concittadino coerente e leale nei confronti del suo paese,

che corse a difendere quando glielo ordinarono e che aiutò ad unire quando si gettò con convinzione in quel lungo processo di pacificazione nazionale di cui fu grande fautore.

Io, che sono stato tra i fortunati ad averlo conosciuto, pur con il rammarico di non averlo potuto frequentare per il mio trasferimento a Venezia, certamente non potrò mai dimenticarlo.