La ricerca di una spiegazione

Enrico Ruggeri canta “Cosa ci prende, cosa si fa, quando si muore davvero… mistero!”. Come avete capito oggi non si parlerà di un evento di cronaca o di un’avventura personale, ma questa volta scenderemo nel profondo del cuore di Teodoro alla ricerca di una risposta, perché “Il breve mestiere di vivere è il solo mistero che c’è”.

Ho voluto e dovuto, purtroppo, anche recentemente, scrivere alcune volte di fatti nefasti e inconcepibili che avevano tutti come epilogo la morte.

Ho cercato di darmi una spiegazione e, forse, anche farmene una ragione, per quanto accaduto sulla spiaggia di Cutro, nella guerra che ormai da oltre un anno colpisce e flagella la popolazione ucraina (ma che fa anche morti tra i soldati russi) e, un po’ di tempo fa, per la pandemia di Covid che ha flagellato il mondo intero.

Scrivere e soffermarsi su fatti così tristi genera in me un’enorme sofferenza e angoscia a cui, però, riesco a porre rimedio unicamente condividendola, cercando di darmi una spiegazione, la più logica possibile. Anche se parlare di logicità in certe circostanze può risultare difficile, e anche fuori luogo.

Parlare di morte e di fatti così nefasti mi fa cadere in una sensazione d’impotenza che si propaga dentro di me, e che sento la necessità di esternare, al solo fine di chiedere un aiuto per la ricerca di quelle risposte difficilmente razionali di cui abbiamo tutti bisogno.

Il mio risentimento è così alto e forte perché mi commuovo e piango per degli esseri viventi che neppure conosco, che non ho mai visto e di cui però sento il peso e la responsabilità della loro morte e sofferenza, come se fossero miei congiunti, miei familiari, miei amici. Rischio, in alcune situazioni, di cadere addirittura nel più profondo sconforto che rasenta la depressione, se penso a quei bambini di ogni colore della pelle che tutti i giorni cessano di vivere solo perché hanno la sfortuna di nascere in quei luoghi disgraziati dove fame, carestie, siccità e guerra sono fatti quotidiani.

Mi domando quali sono le ragioni, se ce ne sono, di questo mio perdermi nel più forte degli sgomenti.

Perché mi dispero e mi sento così legato a chi se n’è andato per sempre? Nella mia intimità soffro di un lutto che mi lascia senza parole, che non mi abbandona mai e, quando sembra essersi chetato o nascosto nel dimenticatoio delle mille cose da fare che il nostro tempo ci impone, eccolo riaffiorare e collocarsi ancor più prepotentemente all’interno del mio animo e dei miei pensieri, quasi a dirmi “Sono qua, non puoi far finta di nulla”, trovando facile albergo nella mia coscienza di uomo, di padre, di marito.

Ed è per questo che cerco di elaborare un ragionamento, di darmi una qualche risposta, una qualche spiegazione, perché sono consapevole che confinare questo dolore nella pietà o nella rassegnazione sarebbe tragicamente inutile. Sarebbe soccombere a qualcosa che di per sé già genera lutto e sofferenza, dolore e morte.

Per questo ascolto, m’informo, leggo molto per cercare di capire, o quantomeno d’interpretare, cosa ci deve insegnare il lutto. Perché tutto non può finire nella morte e con la morte. Dal dolore può nascere una luce, una speranza. Dalle macerie di una casa distrutta può sorgere un nuovo edificio, più solido e più grande. Da ogni rovina, sono convinto, può nascere qualcosa di diverso, di migliore. Diversamente il mondo e con esso l’umanità avrebbe già cessato di esistere. Purtroppo le dichiarazioni di cordoglio non sempre hanno l’effetto sperato, ma anzi spesso aggiungono fastidio al dolore per il modo, le circostanze e in altri casi l’inadeguatezza del momento. Le parole dette a conforto di qualcuno il giorno del funerale, magari poi neanche sentite, hanno lo stesso valore di una goccia d’acqua nel deserto. Niente possono fare, niente possono cambiare.

Parlare di certe cose mi fa sentire inadeguato, fuori dal normale. Ma lo faccio nella ricerca di una spiegazione per quanto possibile logica.

A me la morte non lascia per nulla indifferente; se quella degli altri mi colpisce, il pensiero della mia mi atterrisce.

È l’ultimo tradimento della vita, visto che, per tipi come me, si muore molte volte da vivi: quando perdi la madre, il padre, un figlio, un congiunto prossimo, quando finisce l’infanzia, quando si perde il vigore della gioventù, quando ci si ammala per non guarire più.

Fortunatamente però, non smettiamo mai di rinascere e ogni giorno ci alziamo come se risorgessimo per contrastare quella sequela di eventi anche gravi e luttuosi.

La parola “scomparso” è forse il termine migliore riferito a chi ci lascia, a chi non vedremo più. Lo trovo più adatto, un modo delicato ed autentico quale sostituto del più terribile termine “morto”. È come se, con tale termine, si voglia lasciare una traccia, sottile ma indelebile, di chi non vedremo più. È il sancire il passaggio da una condizione materiale ad una spirituale di cui può rimanerne traccia, un ricordo vivo tra quelli che, come me e come tutti, consapevoli del proprio destino, non possono fare a meno di ricordare, di pensare ai giorni trascorsi e che inesorabilmente trascorrono e trascorreranno.

Chi muore non può tornare indietro e le lamentazioni o le recriminazioni non producono alcun effetto. Nulla possiamo fare per ricongiungerli a noi, se non pensarli e ricordarli nel modo migliore. È questo, forse, l’antidoto più idoneo da opporre alla disperazione e all’angoscia di cui altrimenti diventiamo facile preda. È, il ricordo, l’autentica eredità che ci viene lasciata per superare momenti difficili come il sentirsi soli e non più insieme a chi abbiamo avuto sempre vicino.

Se è vero che la vita ha un termine ed è assimilabile ad un viaggio di sola andata, non possiamo avere rimpianti della sua perdita. Dobbiamo trarre ispirazione, sentimento, coraggio, per emulare quei forti che la vita l’hanno costruita, non quei pazzi che l’hanno distrutta.

Da qui il desiderio di conservare, ma non come elemento nostalgico, piuttosto come voglia di partenza per una nuova avventura di vita. Il desiderio di ciò che ancora non conosciamo e non abbiamo scoperto, che ancora ci può meravigliare, di un pensiero che ancora non abbiamo avuto, di un’emozione che ancora non abbiamo provato. Perché siamo tutti figli di quei morti, e ognuno di essi ci porta ad una ragione per continuare a vivere qui, dove loro non ci sono più, per continuare ciò che essi non hanno potuto compiere.

Siamo tutti figli di quegli “scomparsi” che attendono, attraverso noi, la realizzazione del loro cammino. Siamo i loro eredi e saremo i loro eroi che completeranno il loro percorso.

Foto: Alexandria da Pixabay