Malattia

Articolo pubblicato sulla rivista "NEXUS" n. 113 - Primavera 2020

La scrittura come piacere personale ormai irrinunciabile. Uno sguardo analitico al rapporto con le parole, tra passatempo e automedicazione.

Ho scoperto di essere affetto da una grave malattia, forse contagiosa, ma che nessun medico può diagnosticare e la cui cura, a parer mio, risulta difficile se non impossibile. Nessuna terapia, neanche intensiva, nessun vaccino può debellare questo terribile virus che ti prende e ti modifica, in alcuni casi ti cambia letteralmente la vita. Impossibile da diagnosticare perché non dà febbre o raffreddore, niente mal di gola, male alle ossa o a qualsivoglia parte del corpo. È però parimenti, se non di più, assai dolorosa e in alcune situazioni anche fastidiosa. Non altera la temperatura, come detto, ma ti costringe, sottomettendo ogni altra tua volontà, al suo unico, insaziabile volere.

Non è il coronavirus e non è la tenia, quel parassita che si annida nell’intestino per aver ingerito carni crude di maiale o di bovino, e che costringe, chi risulta parassitato, a un incontrollato aumento dell’appetito pur dimagrendo.
No, niente di tutto questo.

Sono, da un po’ di tempo affetto dalla voglia di scrivere e raccontare.

E se il bacino di ascolto è numeroso, non lo nascondo, ne provo piacere. Ma scrivo essenzialmente per me, per il gusto di farlo e il piacere di leggermi, magari dopo molto tempo. Unica cosa certa e di grande consolazione è che non ho l’Alzheimer, tanto meno quello culturale. Anzi, lo scrivere mi aiuta a ricordare, a esercitare quel meraviglioso “muscolo” che è la memoria. Ed è così che contrappongo il naturale decadimento fisico, dovuto per la verità anche al poco esercizio, al rivisitare e al far riaffiorare quelle nozioni e conoscenze apprese nel corso della vita. Alla pigrizia del corpo insomma, ho risposto forse inconsciamente con il risveglio dei ricordi e delle riflessioni. E devo dire che sono molto fortunato perché la memoria mi ha fatto un regalo straordinario, quello di trattenere in me solo i ricordi delle cose migliori, più belle, interessanti.
Accertato dunque che nel leggere si prova piacere, interesse e curiosità, posso affermare con convinzione che, per quelli come me, lo scrivere sta diventando il passatempo migliore. Più delle parole crociate o del vedere un film.

Vero è che non ho molto tempo da “passare”, vista la mia attività comunque sempre frenetica e di cui, ad esser sinceri, non ne sono affatto dispiaciuto.
E allora, per divertirmi al meglio, cerco di scrivere proprio così come parlo, perseguendo quella che viene definita “oralità della scrittura”. Ossia fruire della narrazione con il ritmo giusto, magari anche accattivante. Scrivere con “oralità” è come costruire un palcoscenico ideale con i vari passaggi, le varie descrizioni, i personaggi giusti al momento giusto. Luci, colori e suoni, possibilmente i più luminosi e aulici, proprio per accattivarmi la simpatia e l’interesse di chi legge. Per ammaliarlo insomma, a quella “oralità della scrittura” che, ahimè, pur perseguendola non sempre riesco a cogliere e a trasmettere.

Ed è così che ogni commento, ogni osservazione, ogni fatto di cui cerco di narrare è comunque impregnato del mio pensiero, del mio modo di essere e, perché no, anche della mia personalissima e in alcuni casi particolarissima interpretazione.
Personalissima perché difficilmente scrivo cose su cui già altri si sono dilungati, particolarissima perché subisco appieno l’effetto di questa patologia che, per fortuna colpisce in maniera sempre diversa. Qualcuno infatti, già “malato” mi disse che, “se la malattia è di quelle leggere, dopo qualche mese passa e non ci pensi più”.

Devo dedurne di essere allo stato cronico o addirittura “inchiostro-dipendente” perché ormai, è già qualche anno che verso inchiostro per il mio diletto e per la grande sofferenza di chi mi legge.

Scrivo e descrivo, racconto di fatti e di storie, di comportamenti e modi di pensare, non trascurando, lì dove ce ne fosse bisogno, di rappresentarli così come effettivamente sono o ci sono stati riportati. Cosa ne penso o cosa ne deduco però, per analogia, non posso farmeli mancare ed è così che, senza fronzoli e senza peli sulla lingua li riporto con altrettanta franchezza.

Non sempre scrivere chiaramente e dir le cose come stanno o come le si pensa, aiuta ad aumentare l’audience ma, quando come me si scrive per diletto e per il gusto di farlo, in talune circostanze, ci si fa prendere la mano e non si va troppo per il sottile. Ed è allora che il detto «quando ce vo’ ce vo’» che non ci ha mai abbandonato, riemerge con tutta la sua forza anarchica e libertina. Per carità, non fraintendetemi, ho molti difetti ma non sono certamente un anarchico. Sono rispettosissimo infatti di norme e regole ma, proprio per questo, tollero poco e raramente chi, per un qualsivoglia motivo, voglia prendermi per il naso o prendersi gioco delle regole stesse. Ci siamo chiariti.

Da oggi quindi siete ancor più liberi di girar pagina quando leggete un mio articolo ma, per cortesia, se vi piacesse o lo condivideste, aiutatemi a divulgarlo perché in fondo in fondo, ogni scrittore, ogni giornalista è gratificato dall’aumentare dei suoi lettori.

Foto: Free-Photos da Pixabay